TAIWAN: GLI “HAKKA”

Chi sono gli Hakka? Sono più di un popolo e non vivono solo a Taiwan ma in tutto il mondo. Ecco cosa ho scoperto documentandomi su internet.

Mia moglie Kate, Taiwanese, parlando della città natale del padre – il “villaggio” lo chiama lei – e delle sue origini, mi ha sempre detto di essere una “Hakka” ed avevo sempre inteso questa parola come identificativa del popolo di quella zona, un po’ come dire che io sono napoletano.

Nessuna sorpresa, quindi, che gli Hakka avessero la loro lingua che Kate non capisca o parli al 100% non essendo mai vissuta nel villaggio, come il napoletano stretto è difficile da comprendere se non si è vissuti a Napoli. Gli Hakka hanno le loro abitudini, le loro usanze ed amano tornare al “villaggio di origine” per stare insieme (sono sempre grandi famiglie: basta pensare che il padre di Kate ha ben 7 fratelli). Tutto quadrava in questa mia teoria sugli Hakka sino a quando, giusto ieri, facendo delle domande a Kate, le sue risposte erano abbastanza complicate e mi confondevano le idee anziché chiarirle. Ho deciso allora di ricorrere a Wikipedia ed ho scoperto di non aver capito niente!

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Sopra, una bella veduta notturna di Kaohsiung (Taiwan).

Gli Hakka non sono un gruppo legato ad un luogo come, appunto, i napoletani a Napoli, ma sono ben 80 milioni sparsi in tutto il mondo: l’unica origine conosciuta è quella del centro-nord della Cina, ma gli Hakka – migliaia di anni fa – sono andati dappertutto e, per la precisione, la parola Hakka significa “famiglie invitate”, vale a dire una sorta di emigranti a cui, i popoli ospitanti, cedevano dei lembi di terra, di solito i peggiori della zona, che gli Hakka coltivavano con ostinazione, onestà e duro lavoro fino a renderli più produttivi delle “zone buone”. Questo, però, non è mai stata causa di conflitti e gli Hakka, all’inizio guardati dall’alto in basso, conquistarono le loro terre e la loro dignità di “persone residenti” e non “immigrati/ospiti”, spesso arrivando ad occupare posti nella pubblica amministrazione e nel governo dei piccoli centri che li avevano ospitati.

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Un venditore di frutta a Kaohsiung (Taiwan) vicino al Lotus Pound.

In tutto questo, gli Hakka hanno mantenute vive le loro tradizioni e la loro lingua, del tutto diversa dal cinese o dal taiwanese. Anche la loro religione è diversa: non sono buddisti o quant’altro, ma venerano i loro antenati (mi ricorda il culto degli antenati – i penati – nell’antica Roma) ed ora mi spiego il “tempietto di famiglia” nel villaggio del padre, un’incrocio tra un tempio ed un cimitero, cosa che avevo pensato all’inizio. E’ un “cimitero” perché, quando il padre di Kate morrà, le sue ceneri verranno riposte lì, ma è il loro luogo di culto dove ci sono le ceneri dei loro antenati e vanno lì per pregare o, come nel mio caso, per “presentare il marito di Kate”. Anni prima il fratello di Kate aveva portato lì dall’America il suo attestato di laurea per mostrarlo agli antenati e ringraziarli di averlo aiutato a farcela, per poi tornarci in seguito con la moglie e poi ancora col primo figlio (il secondo ha poco più di un anno e non è ancora andato a Taiwan).

Quello che Kate ha sempre chiamato “il villaggio” è in realtà un grosso e prosperoso paese di vocazione agricola, ma molti abitanti (come la famiglia di Kate composta da avvocati, medici, fiscalisti e professionisti che vivono a Kaohsiung) hanno conservato la vecchia, grande casa colonica per andarci nelle feste comandate e per le riunioni familiari.

Il padre di Kate mi ha mostrato con orgoglio una collina alle spalle della casa dicendomi che era tutta della sua famiglia (non hanno mai fatto divisioni anche se sono 7 fratelli con tantissimi nipoti che ormai sono più vecchi di me: Kate è l’ultima nata, la “piccola” della famiglia).

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La grande casa colonica è a forma di “U” aperta e, al centro del lato chiuso, c’è il tempietto degli antenati. Siamo andati lì prima di andare al matrimonio di una cugina ed il padre di Kate ha speso qualche parola per presentarmi “ufficialmente”, quindi tutti insieme abbiamo bruciato dei lunghi bastoni d’incenso che abbiamo lasciato in un apposito contenitore al centro della stanza. Da allora non sono più uno straniero, ma uno della famiglia.

Dopo il matrimonio della cugina, mi hanno invitato alla loro amata pausa tè nel giardino di famiglia tenuto con cura maniacale da uno zio, ma chiamarlo giardino è riduttivo in quanto arriva sulla collina e ci si può perdere nel boschetto di bambù.

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Questi sono gli Hakka ed oggi ne faccio un po’ parte anch’io.

Rino Giardiello © 11/2016
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